Quando la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nel gennaio 2013 ha condannato l’Italia per la drammatica situazione del sovraffollamento carcerario, la mancanza di lavoro ha cominciato a farsi ricordare nei dibattiti pubblici: giornalisti, rappresentanti politici e della società civile hanno iniziato a proclamare l’importanza del lavoro in carcere, riferendosi ad esso come una panacea, anche contro le recidive. Trasmesse sui media, sequenze di lavoro in cucina o in pasticceria e interviste a detenuti impiegati nei call center allestiti all’interno di alcune carceri, sono diventati il nuovo volto della realtà carceraria.
Quello della detenzione come pena rieducativa e riabilitativa nei confronti della società è un argomento inoppugnabile e insindacabile, al netto di ogni demagogia, dal vantaggio economico del lavoro in carcere per ogni detenuto, alla riduzione delle recidive accertata e così di una migliore gestione delle carceri.
Proprio in quest’ottica di rieducazione ed inserimento nella società si colloca il Progetto Diocesano “Senza Sbarre”, Opera di Don Riccardo Agresti e Don Vincenzo Giannelli, il quale mira a promuovere una messa in atto di una misura alternativa al carcere per i detenuti; per chi è sottoposto a provvedimento di custodia attenuata; per chi ha patteggiato la sua pena scegliendo i lavori sociali; per ex detenuti e per tutti coloro che sono sottoposti ogni forma di custodia prevista dalla legge.
Il progetto si sviluppa partendo dall’esperienza di questi due sacerdoti che hanno sempre svolto la propria missione fianco a fianco con i detenuti nelle carceri, aiutandoli a ritrovare la propria spiritualità, a comprendere ed accettare i propri errori, e guidandoli in una seconda primavera della loro vita, fatta di redenzione e cambiamento. Occasioni che sono offerte principalmente dall’avere una attività che riesce a farli sentire utili ed appagati, è il caso di un lavoro ovviamente.
Anche l’area geografica in cui Don Riccardo e Don Vincenzo praticano la loro pastorale dà un contributo determinante a questo tipo di attività. Se da un lato la provincia di BAT (Barletta – Andria e Trani) è una realtà piegata da decenni di macro e micro criminalità, dall’altro si tratta di comunità che hanno sviluppato gli anticorpi per questo protocollo delinquenziale e che – al contrario – si dimostrano solidali e pronte ad aiutare chi prova a dare un contributo attivo al proprio territorio.
In virtù di questo senso di comunità vigente in queste realtà, i due sacerdoti hanno invitato i propri fedeli a creare “ponti tra il carcere e il mondo” per i detenuti, contribuendo a rieducarli e riaccoglierli tra di loro nuovamente.
Ma in cosa consiste di fatto il Progetto Diocesano “Senza Sbarre”? Si tratta di un ambizioso piano di costruzione di una impresa multiservizi, incentrata soprattutto nella lavorazione della terra e nella creazione dell’olio “Senza Sbarre”, a totale cura dei detenuti, a partire da una masseria fortificata in contrada san Vittore, circondata da circa 10 ettari di campagna. Il progetto è aperto a tutti coloro che possono usufruirne – sempre secondo i limiti imposti dalla legge – sia facenti capo alla Casa Circondariale di Trani, che dell’intera Puglia e anche Italia, a seconda del fabbisogno dell’azienda agricola.
Il Progetto Senza Sbarre, nasce come una potenziale seconda opportunità per chi si trova a dover subire le criticità di un sistema da tempo in difficoltà, quale anello di congiunzione tra tutti gli aspetti del “Dentro” e del “Fuori” e che caratterizzano la problematica.
La partecipazione a un’attività produttiva come quella agricola utile alla società è di particolare importanza per i detenuti. In primo luogo, il lavoro manuale produttivo porta i prigionieri a capire che le ricchezze della società non cadono dal cielo; si può così far crescere l’interesse per il lavoro, l’abitudine al lavoro, la convinzione che “i frutti del proprio lavoro si raccolgono dalla costanza e dall’impegno”, che elimina le concezioni dannose del disprezzo per il lavoro manuale e corregge la tendenza a voler trarre il massimo profitto dal minimo sforzo, idea radicata nelle menti criminali. Allo stesso tempo, il lavoro manuale promuove la consapevolezza della responsabilità di ogni persona nei confronti della società e il senso della disciplina.
Secondo, un lavoro manuale adattato facilita il loro sviluppo fisico e li mantiene in buona salute; rimanendo rinchiusi in cella tutto il giorno senza alcuna attività prolifica che li tiene impegnati, rischiano di essere psicologicamente oppressi, meditabondi, nervosamente depressi, magari anche solo con l’idea di fuggire, suicidarsi, o infrangere di nuovo la legge. Terzo, il lavoro manuale offre ai detenuti l’opportunità di padroneggiare una o più tecniche professionali che consentiranno loro di trovare lavoro alla fine della pena. Eviteranno così di ricadere nelle loro cattive abitudini e di recidivare perché non sono stati veramente rieducati o non sanno come rimettersi in carreggiata nella vita.