Francesco Baccini: “Le canzoni come cibo a km zero: ripartiamo dalla ‘bio’ musica”

E’ un Francesco Baccini senza filtri quello che abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo nuovo singolo “Le notti senza fine”, che ci ha parlato di quelli che sono, a suo parere, i mali che affliggono oggi il mondo della discografia, finalizzata soltanto allo scopo di fare utili a discapito della qualità. Il cantautore genovese, attraverso un’accorata lettera divulgata tramite i suoi canali social, ha lanciato il suo personale appello riscontrando grande consenso da parte del pubblico.

Ciao Francesco, il singolo “Le notti senza fine” anticipa l’uscita del tuo primo progetto discografico realizzato in coppia con Sergio Caputo, intitolato “The swing brothers”. Cosa puoi rivelarci al riguardo?
“Personalmente erano dieci anni che non realizzavo un disco di inediti e avevo l’intenzione di non farne uno per i prossimi dieci. Vivo benissimo senza, sarà che nella mia carriera ne ho fatti quattordici, anche se recepiti dal pubblico soltanto cinque, perché se non hai una major che ti fa promozione e le radio che ti passano, al pubblico non arrivi nemmeno. Quando ho iniziato era tutto diverso, poi a un certo punto è cambiato il mondo, le case discografiche sono state affidate a manager incompetenti, i network radiofonici hanno deciso di trasmettere soldi e non più canzoni, io come tanti altri colleghi ci siamo ritrovati fuori. Quindi puoi capire come l’idea di fare un disco nuovo mi eccitasse come prendere delle martellate in testa, Questo progetto con Sergio va oltre tutto questo, lo abbiamo fatto divertendoci e di essere passati in radio non ce ne può fregar di meno. Nella vita le cose si fanno principalmente per tre motivi: per prestigio, per soldi o perché ti diverti a farle. Probabilmente da solista sarei più esposto e più coinvolto, perché se devo fare un disco nuovo e conosco già l’iter a memoria, non mi diverte neanche più. Questo non è più un momento storico da album ma da singoli, siamo tornati paradossalmente agli anni ’60”.

Lo scorso 3 luglio si è spento Paolo Villaggio: è genovese come te, lo hai definito un anarchico e uno spirito libero. Che ricordo hai di lui?
“L’ho incrociato diverse volte, la prima volta me l’ha presentato Fabrizio De Andrè, loro erano grandi amici. Lo ricordo come una persona carismatica, ma anche scostante e lunatica, dipendeva un po’ da come si svegliava. In questo era molto ligure, spesso burbero, come sono anche io alla fine. Poi come artista, invece, lo conosciamo tutti, è stato la vera e propria maschera del ‘900, cambiando il modo di parlare di tutti. Con Fantozzi ha raccontato uno spaccato di vita, rappresentando l’Italiano medio con tutta la sua sfiga. Quando ho fatto anche io per cinque anni l’impiegato in porto, devo ammettere che il suo personaggio non mi faceva ridere ma incazzare, perché rispecchiava quello che ero io in quel momento, nel mio ufficio c’erano la signorina Silvani e il ragionier Filini di turno. I suoi film, da un certo punto di vista, erano drammatici e iperrealisti, perché ironizzavano su una situazione reale in chiave tragicomica, con la cattiveria che solo un genovese può tirar fuori con sarcasmo. L’ironia presuppone sempre una certa cultura e può rappresentare un’arma a doppio taglio, perché se non la sai leggere è un casino. Paolo Villaggio aveva un’intelligenza fuori dal comune, ha lasciato un segno pesante dal punto di vista linguistico e artistico, un uomo che mi mancherà tanto, anche se era un maledetto sampdoriano”.

Quest’anno ricorre il cinquantennale dalla scomparsa di Luigi Tenco, alcuni anni fa hai reso omaggio al suo ricordo con un bellissimo album di cover. Dal punto di vista umano e artistico, cosa ti lega così profondamente a lui?
“Mi lega un certo modo di scrivere e di vedere le cose, che purtroppo non c’è più. Da ragazzino lui e De Andrè mi hanno aperto un mondo, in radio e in tv non si ascoltava che canzonette. Nel 2011 ho deciso di realizzare un disco di cover di Tenco, che mi ha permesso di vincere tutti i premi presenti in natura, al quale sono seguiti tre bellissimi anni di tournèe., Negli anni sessanta tutti impazzivano per Claudio Villa, che era considerato il reuccio della canzone italiana, Tenco non se lo cagava nessuno. Oggi si sentono in giro più le sue canzoni o quelle di Villa? Di norma l’artista è sempre più avanti del suo tempo. Si confonde troppo spesso il successo con l’essere artista, allora Van Gogh che in vita non ha venduto neanche un quadro era un cretino? Oggi una sua opera credo non abbia prezzo, proprio perché l’artista è sempre più avanti dell’epoca in cui vive”.

Nei giorni scorsi hai divulgato sui tuoi canali social una lettera aperta dove parli dei mali che stanno distruggendo la musica. In cosa ha fallito la discografia?
“La discografia si trova in mutande perché continua a produrre i dischi che non si vendono più, ma il problema è da attribuire agli idioti che hanno mandato avanti questa industria per anni, anche quando fatturava ancora. Questi incompetenti hanno per anni finanziato le radio, facendole crescere fino a diventare questi potentissimi network, grazie ad un prodotto fatto da altri e arrivando oggi a realizzarlo in prima persona producendo loro stessi i prodotti che passano, perché viviamo in un Paese dove la parola ‘conflitto di interessi’ non ha alcun valore”.

E si finisce per essere etichettati ‘artisti di nicchia’…
“Ecco, questa è una delle cose che più mi fanno incazzare! Non ho mai sopportato questa definizione, ma cosa vuol dire? Io voglio che qualcuno mi senta suonare, arrivare al pubblico, altrimenti che senso ha? Con i miei primi dischi sono riuscito a diventare nazional popolare con un genere che non lo era affatto, questo perché all’epoca c’era un’altra mentalità. Purtroppo in Italia i discografici, a parte qualche rarissimo caso, hanno letteralmente rovinato la musica. In trent’anni li ho conosciuti un po’ tutti, pensano solo a guadagnare e non ci capiscono una mazza. Ti faccio un esempio: nel ’93 ho inciso un pezzo che si chiama ‘Portugal” con Patrizio Trampetti, uno dei fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare, una canzone unica nel suo genere perché fonde due dialetti, il genovese e il napoletano. Qualche anno dopo mi è venuta l’idea di ricantarla con un gruppo brasiliano, per le assonanze linguistiche che intercorrono tra il portoghese e il genovese. Mi sono messo in contatto con questo gruppo, loro hanno accettato ma il direttore di quella che era all’epoca la mia casa discografica si è detto contrario, sostenendo che sarebbe stata un’operazione commercialmente di poco conto e che quel gruppo non avrebbe mai fatto successo. Così, a malincuore, ho dovuto rinunciare. L’anno dopo esce il disco ‘Buona Vista Social Club’, il gruppo era quello di Compay Segundo. Cosa avrei dovuto fare a quel discografico? Appenderlo al soffitto? La cosa peggiore è che questo è ancora in giro a far danni, continuando a distruggere la musica”.

Cosa manca davvero alle generazioni di oggi?
“Oggi non c’è anima, non c’è originalità, i cantati sono tutti uguali e trattati dalla discografia come polli d’allevamento, io invece preferisco la gallina del contadino. Ecco, nella musica bisognerebbe fare come nel settore alimentare: un ritorno alle origini, all’orto, al chilometro zero… ci vorrebbe la musica bio! Se riascolti certi dischi vecchi sembrano sempre attuali, perché il suono del pianoforte e della chitarra è sempre lo stesso, mentre i dischi che invecchiano nel tempo sono quelli fatti con l’elettronica, la tecnologia, perché il suono cambia a seconda delle mode. I suoni riprodotti degli strumenti veri rimangono la cosa più moderna che ci possa essere in musica, come per l’abbigliamento la giacca blu che rimane un classico. Io preferisco fare giacche blu che camice a quadretti arancioni e gialle con il colletto storto che vanno di moda tre mesi”.

Per concludere, alla luce di tutto quello che ci siamo detti e dopo aver letto la tua lettera, perché non scendi in campo con una sorta di Movimento Cinque Stelle della musica italiana?
“Ma non ci penso nemmeno! Guarda, c’avevo provato anni fa con l’Independence Music Day con Povia, che dopo aver conosciuto meglio il personaggio ho rotto con lui ogni tipo di rapporto. Negli Stati Uniti c’è un sindacato dei musicisti, che tutela davvero gli artisti, in Italia è questo che manca. Io non voglio fare Grillo, io sono un artista e faccio quello che so fare, non sono un manager o un capopopolo, dico semplicemente quello che penso. Per me la musica è una roba sacra, quando la vedo calpestata, usata come uno zerbino, allora m’incazzo”.

Scritto da Nico Donvito

Appassionato di scrittura, consumatore seriale di musica e spettatore interessato di tutto ciò che è intrattenimento. Innamorato della vita e della propria città (Milano), ma al tempo stesso viaggiatore incallito e fantasista per vocazione.