Trapianto di Feci per curare la KPC: cura sperimentale a Monza

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Trapianto di feci. Si chiama “Fecal microbiota transplantation”. Trapiantare il materiale fecale da un donatore sano a uno “portatore” di germi resistenti alla quasi totalità degli antibiotici ospedalieri. E’ questa la tecnica che il reparto di Malattie infettive dell’ospedale San Gerardo di Monza spera di poter effettuare per implementare le possibilità di “decolonizzazione” del tratto gastro-intestinale nei pazienti affetti da Klebsiella Pneumoniae Carbapenemasi-produttrice (KPC).

Si tratta di un infezione batterica , molto resistente all’antibioticoterapia e che potrebbe provocare sepsi sistemiche che portano in molti casi, alla morte. Grecia, Portogallo e Italia sono tra è i Paesi più colpiti da questo tipo d’infezione.

“Lo studio nasce dall’osservazione del forte aumento di infezioni multi-resistenti causate dal batterio KPC sul territorio e ha un alto tasso di mortalità in pazienti immunodepressi. Si parla dell’80%. Ed è difficile da sconfiggere”.

E ancora: “La tecnica del trapianto fecale rappresenta un’importante opportunità per cercare di ridurre il problema delle infezioni ospedaliere. molto diffuse negli ultimi anni.
E dopo i risultati positivi che hanno mostrato l’eradicazione del Clostridium Difficile (ndr: altro batterio responsabile di severe coliti in corso di antibioticoterapia e difficilmente trattabile) abbiamo pensato di provare ad applicarla anche nelle infezioni da KPC“, ha spiegato Andrea Gori, responsabile della sperimentazione e direttore dei dipartimento di medicina interna e dell’U.O malattie infettive dell’ospedale San Gerardo di Monza.

“E’ difficile decolonizzare il paziente contagiato: in realtà, non si eradica l’infezione quasi mai. Questa infezione colpisce i pazienti più fragili, come gli immunodepressi o chi ha subito da poco un trapianto. Le possibilità attuali terapeutiche sono condizionate dalla resistenza agli antibiotici, tra cui il batterio KPC che costituisce una “testa di serie”.

L’obiettivo dello studio è quello di trattare venticinque pazienti colonizzati dal batterio KPC, e ripulire l’intestino per introdurre nuovo materiale fecale con microbiota sano proveniente da donatori selezionati e in buona salute, tramite sondino naso-digiunale, per ripristinare la flora batterica “normale” e favorire l’eliminazione del batterio nocivo.

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Il follow-up avviene a uno, tre e sei mesi dall’intervento per verificare la buona tenuta dell’eradicazione. “Nella metà dei pazienti trattati fino a adesso – spiega il direttore i dati preliminari mostrano una negativizzazione per KPC al follow-up a un mese dice Gori – E sono risultati preliminari. L’aspetto interessante è che questa negativizzazione è visibile a una sola settimana dal trapianto”. Ne parla con cauto ottimismo perchè è ancora molto presto per fare affermazione certe.

C’è bisogno di un follow-up più lungo per poter verificare la tenuta nel tempo. Se si avesse conferma dei risultati, si potrebbe passare a una fase più allargata dello studio in modo da valutarne l’efficacia su una popolazione di dimensioni maggiori”. Ha concluso Gori.