Sesso, paranoia, vista ed arte sono i temi sui quali “Napoli Velata”, il nuovo film di Ferzan Ozpetek, muove. Quattro elementi compresenti durante lo svolgimento del lungometraggio che vengono ad unirsi solo in un finale enigmatico.
La pellicola, totalmente girata nel capoluogo partenopeo (anche in scene dove la finzione filmica potrebbe rimediare altrimenti), è un insieme apparentemente disomogeneo di storie, vite umane a confronto che possono intrecciarsi solo nel finale.
La regia non è da meno: chiaroscuri che rendono la festosa atmosfera del centro storico napoletano in maniera opaca, quasi dissociante. Ma che non mancano di porre l’accento sul mistero di imitazione dell’arte. Ottima la scena che sovrappone mosaici romani alla tensione sessuale della protagonista.
Come suggerisce il nome, il film inizia e finisce con un velo: inizia con la rappresentazione di uno spettacolo teatrale che pone lo spettatore dinanzi ad una scena di parto, dove cala un velo sul miracolo della nascita; e finisce, prevedibilmente, all’interno della Cappella Sansevero, proprio davanti al Cristo Velato di Sanmartino.
Il velo, che cinge come una veste il film, è il confine sottile tra finzione e realtà di memoria schopenaueriana. L’uomo brama di vedere oltre l’aspetto fenomenico delle cose senza riuscirvi, disperando fino ad annichilirvisi. La protagonista, Adriana (Giovanna Mezzogiorno), dottoressa alla ricerca della “passione e dell’amore eterno”, si innamora e passa una notte di passione con uno sconosciuto incontrato ad una festa, Andrea (Alessandro Borghi), il quale dopo averla invitata a passare un pomeriggio al museo, muore violentemente.
Il film, quindi, si configura come una cieca e tragica rincorsa al fantasma di quella notte, al fantasma della passione e del mistero che continuerà a tormentare la protagonista fino alla fine del film, quando un intervento quasi provvidenziale la salverà.
“Napoli Velata”: tradizione teatrale e stile noir
Una rappresentazione, volendo, anche teatrale che non esita a ripercorrere aspetti della tradizione napoletana come quella dei “femminelli”, nella vulgata destinatari di un mistero esoterico da custodire, o quella del culto esoterico, continuamente riproposta sotto il tema della vista e dell’occhio; o ancora nella tradizione comico-tragica del teatro eduardiano di Questi Fantasmi (la prima scena è chiaramente ispirata dalla descrizione del palazzo in cui si trasferisce il mitico Pasquale Lojacono).
Il senso del film è ben rappresentato nella prima scena, quando cala il velo sul miracolo della nascita: “Gli uomini non sopportano di vedere la verità”, nonostante il regista cerchi (forse per l’atmosfera da thriller) di sviare lo spettatore su aspetti secondari (ad esempio la lunga scena di sesso in apertura).
Non può che calare il sipario sulla scomparsa: la scomparsa delle forze dell’ordine nel risolvere il delitto, la scomparsa dell’affetto, la scomparsa della verità, ma soprattutto la scomparsa fisica, il grado più radicale di punizione. Per rendere al meglio il concetto, Ozpetek non ha esitato a prendere in prestito una delle scene più celebri della cinematografia. Che va in scena non in un freddo campo da tennis inglese, ma in Via Raimondo di Sangro.