Stiamo parlando dell’attesa per “Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi“, di Rian Johnson, uscito finalmente nei cinema italiani il 13 Dicembre e che sta già facendo come facilmente preventivabile sfracelli nei botteghini di tutto il mondo.
“Per me è figlia di Luke“. – “No, è figlia di Leia“. – “Mah, io le vedo un non so che di fisionomia wookiee”. – “Secondo me Rey è figlia del bangladese qui sotto”. – “Vabbè, ragà, ve lo rivelo: è figlia mia”. Dialoghi di ordinaria follia hype che negli ultimi due anni hanno accompagnato serate goliardiche di tanti appassionati della space opera fantascientifica più famosa della cinematografia mondiale.
Star Wars 8 era stato, nonostante l’innegabile motivazione monetaria che l’aveva generato, l’inizio di una nuova speranza: anche nel secondo millennio era possibile continuare il racconto della prima trilogia ripercorrendo con rinnovato (ma non troppo, Jar Jar Binks docet) fulgore tecnico le strade tracciate da George Lucas.
La domanda più ricorrente tra i fan era però se dopo l’emozione del ritorno a casa questo nuovo episodio sarebbe riuscito ad emanciparsi dal proprio ingombrante padre e a camminare con le proprie gambe.
L’assegnazione del secondo episodio della continuity a un regista giovane come Rian Johnson che aveva alle sue spalle un solo grande successo (e pure quello, sebbene non dichiaratamente, derivativo da tanta sci-fi: “Looper“) non lasciava presagire nulla d’originale.
Insomma, la scelta di non cercare un autore con una propria cifra stilistica affermata faceva temere che si sarebbe proseguito nel solco della nostalgia abramsiana, meramente appagante per un pubblico di bocca buona. Ed invece, a visione ultimata, si può riconoscere che il principale merito del regista dell’ottavo Guerre Stellari è proprio quello di aver saputo imprimere alla saga una direzione lontana dal rispetto filologico dei fan e più vicina a quella del semplice appassionato.
Gli elementi più iconografici infatti restano e sono anzi arricchiti da un senso di grandeur molto meno marcato nei precedenti episodi: le lotte tra Star Destroyer e X-wing rappresentano uno spettacolo pirotecnico magniloquente fino ad arrivare all’esagerazione di un’esplosione spaziale in slow-motion che richiama quella di “V per Vendetta“.
Le spade laser, i Ribelli, una forza Imperiale biecamente malvagia, l’avventura a zonzo tra pianeti, il coraggio di provare a risolvere problemi universali attraverso la forza del singolo eroe sono solo alcune delle caratteristiche che il film riprende e amplia. In un’opera che aspira a più riprese al parricidio artistico era però necessario insistere con altrettanto vigore sulle dovute differenze dalla matrice fantascientifica originale.
Star Wars VIII, Rian Johnson firma la sceneggiatura
Rian Johnson, che ha l’impudenza (geniale?) di firmare da solo anche la sceneggiatura, imprime alcune sterzate di tono che sorprendono lo spettatore. Innanzitutto, l’inserimento robusto di una dose di dissacrante comicità che fa capolino nei momenti più importanti della storia.
La spolveratina di Luke o le gag sul tronfio generale Hux sono una precisa rinuncia al tono ingenuamente epico delle due trilogie lucasiane. Inoltre, sebbene la casa madre Disney continui imperterrita a non voler mostrarle con nette inquadrature arrivando al paradosso di non far capire se un dato personaggio sopravviva (vi evito lo spoiler) anche le morti di semplici comprimari sono molto più numerose che in passato.
Forse il cambiamento più foriero di novità è però l’abbandono del misticismo. Non è più il tempo per la predestinazione Jedi: come mai successo in passato chiunque può usare la democratica Forza tanto che una ragazza senza nobili natali può in tre soli lezioni padroneggiarla meglio del Maestro.
A fronte della caduta del cielo religioso sul campo di battaglia restano uomini e donne col loro bagaglio sanguigno di ricordi appannati, di sensazioni impetuose, di innata giustezza morale che non ha bisogno di perle filosofiche espresse da un alieno piccolo e verde. O di battute fuori cosmo massimo che non fanno ridere ma almeno hanno il singolare pregio di destabilizzare la seriosità dell’Universo