“L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”, soleva dire Primo Levi, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz. Affermazione forte, che testimonia quanto sia ancora aperta la ferita della Shoah, ossia lo sterminio degli Ebrei vittime del genocidio nazista.
Giorno della Memoria 2020: perché si celebra
Proprio oggi lunedì 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, per ricordare non solo le vittime ma anche l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz e la liberazione del campo di sterminio nazista nel 1945. Da allora sono trascorsi ben 75 anni dal giorno in cui la corazzata armata del Fronte ucraino varcò i cancelli sotto la drammatica quanto eclatante scritta Arbei macht frei, ossia “Il lavoro rende liberi”.
Dal 2000 in Italia il Giorno della Memoria è diventato un dovere morale e di coscienza storica che ha l’obiettivo di ricordare in primis il genocidio del popolo ebraico e, più direttamente, la persecuzione degli ebrei italiani, figlia delle leggi razziali.
Sono fondamentali iniziative e momenti di riflessione su pagine sanguinose della storia, la nostra in modo particolare, in cui hanno perso la vita per mano della cattiveria gratuita dell’essere umano bambini, famiglie, deportati politici e militari, ma anche chi voleva opporsi allo sterminio e al sistema dittatoriale.
Non mancano di certo belle pagine da raccontare, di eroi prima ancora che personaggi come Giorgio Perlasca il quale, nell’inverno del ’44, si finse Console generale spagnolo per salvare la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi strappandoli alla deportazione nazista e alla Shoah.
Come nasce la scritta “Arbeit macht frei”
La frase è tratta dal titolo di un romanzo del 1872 dello scrittore nazional-sociale Lorenz Diefenbach, il quale racconta la storia di Elodie von Bentem, una signora nobile che vede nel lavoro la chiave di volta per superare la propria chiusura individualistica, figlia dei pregiudizi di stato sociale e di genere, varcando la soglia del matrimonio dopo diverse avventure.
Altra figura cardine del racconto è un giocatore d’azzardo nonché truffatore che riesce a ritrovare la via della saggezza e a scappare dal fato avverso. In tale contesto il “lavoro” assume una valenza pedagogica e lo si considera una via alla virtù.
Adesso la domanda sorge spontanea: come si è arrivati a strumentalizzare il titolo del romanzo ed ergerlo a mo’ di benvenuto, si intende in senso negativo, dapprima a Dachau nel 1933, e poi ad Auschwitz nel 1940?
Dal punto di vista storico, lo slogan Arbeit macht frei fu collocato all’ingresso di diversi lager nazisti. A Dachau, in particolare, fu applicato dall’ufficiale delle SS Theodor Eicke, successivamente promosso a ispettore dei campi di concentramento per tutto il Reich tedesco; in un secondo momento Rudolf Höss fece la stessa cosa ad Auschwitz.
Sempre a Dachau, all’ingresso del lager si ergeva l’edificio dell’amministrazione del campo, dove si aveva modo di leggere a chiare lettere:
C’è una sola via che conduce alla libertà e le sue pietre miliari sono l’obbedienza, la diligenza, l’onestà, l’ordine, la pulizia, la temperanza, la verità, il sacrificio e l’amore per la propria patria”.
Parole che fanno venire i brividi e provocano la pelle d’oca, a maggior ragione quando si è consci che l’inferno viene tacciato di “virtute” e “amore” e poi i fatti, nella loro crudezza, mostrano altro.
Le considerazioni di Primo Levi
In un articolo intitolato per l’appunto Arbeit macht frei, Primo Levi evidenzia che quelle parole si leggevano sul cancello d’ingresso nel Lager di Auschwitz e annota ironicamente il significato letterale è “il lavoro rende liberi”, anche se la ratio ha dei risvolti poco ironici e ben più orridi:
Il Lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin dall’inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio; e quindi credo da escludersi che quella frase, nell’intento di chi la dettò, dovesse venire intesa nel suo senso piano e nel suo ovvio valore proverbiale-morale”.
Levi spiega di seguito la sua interpretazione:
È più probabile che avesse significato ironico: che scaturisse da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, di cui i tedeschi hanno il segreto, e che solo in tedesco ha un nome. Tradotta in linguaggio esplicito, essa, a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press’a poco così: ‘Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte‘”.
E poi in modo diretto e marcato, mettendo sullo stesso piano nazismo e fascismo italiano:
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano.
Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo concentrazionario”.